Codex Miscellaneus

L'ORIGINE DEL VOLGARE IN ITALIA


L'origine del volgare in Italia si fa risalire a due documenti in particolare, il primo dei quali appartiene al VIII e IX secolo e va sotto il nome generico di Indovinello veronese scoperto dal filologo Luigi Schiapparelli nel 1924 e conservato presso la Biblioteca Capitolare di Verona. Recita: "Boves se pareba/alba pratalia araba/et albo versorio teneba/et negro semen seminaba (Conduceva i buoi/arava campi bianchi/e reggeva un aratro bianco/ e seminava semenza nera). La soluzione è proprio la figura del copista: i buoi condotti sono una metafora delle dita mosse durante la lenta scrittura; i campi bianchi arati rappresentano le pagine scritte dalla penna d'oca (l'aratro bianco) che pare seminare inchiostro nero.

L'attenzione va rivolta al latino utilizzato nel testo: una lingua già volgarizzata e comprensibile che reca la scomparsa della /-t/ finale nella terza persona singolare dell'indicativo imperfetto, così come quella dell'accusativo consonantico; mentre la conserva è avvertibile nell'uso della congiunzione et e del lemma albo (-um).

Il secondo dei documenti è il cosiddetto Placito di Capua uno scritto di natura processuale redatto nel marzo 960 basato sulla rivendicazione di proprietà terriera intentata dal nobile Rodelgrimo che convoca a convenuto l'Abate Aligerno in rappresentanza del Monastero benedettino di Montecassino che evidentemente occupava le terre contestate.

La decisione viene rimessa al giudice Arechisi che, udite le ragioni di Rodelgrimo ed esaminata la memoria da lui prodotta, assicurò l'Abate che l'attore si sarebbe rimesso alla legge.  Non disponendo di ulteriore documentazione invitò Aligerno a produrre i confratelli come testimoni i quali, ad uno ad uno, reggendo con le mani la memoria del nobile signore, dovevano pronunciare solennemente la formula: "So che  quelle terre entro quei confini che qui si descrivono, trent'anni le ha possedute il Monastero di San Benedetto".

La suddetta frase, che costituiva parte fondamentale del giuramento, suonava così: "Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti" e rappresenta la prima frase in volgare apparsa in un documento ufficiale redatto peraltro totalmente in lingua latina.

Balzano immediatamente all'occhio la persistenza del /k/ invece della /c/ e la conserva formale del latino nel que sia pur con desinenza derivata dal dittongo /-ae/.

Ulteriore elemento è l'uso sintattico della preposizione per come complemento di moto per luogo, semanticamente prossimo al nostro attraverso.

 

L'ALFABETO DI HILDEGARD VON BINGEN


La "Lingua ignota per hominem semplicem Hildegardem prolata" è un alfabeto di 23 lettere ideato dalla mistica tedesca Hildegard Von Bingen nel XII sec.e parzialmente ispirato alla grammatica latina nell'intento di creare un linguaggio criptato a forte contenuto spirituale. C'è chi ha voluto vedere invece un approccio ad una lingua universale parlata da quante più popolazioni possibile. Per questa ragione viene considerata la santa protettrice dell'esperanto.

 

MASSIME MEDIEVALI

"Siamo come nani seduti sulle spalle dei giganti, per cui vediamo poco della nostra piccolezza e viceversa molto dell'altrui grandezza". Questa notissima frase attribuita a Bernard de Chartres e riportata per la prima volta da John Of Salisbury, sta a rappresentare un sentito adagio dei pre-umanisti secondo cui la nostra piccola statura culturale può elevarsi di molto se alimentata dalla conoscenza e da un costante studio dei capisaldi della letteratura, della filosofia, della teologia e delle arti liberali.

L'ORIGINE DELLA PROSA IN VOLGARE: IL NOVELLINO


Durante il preponderante propagarsi del volgare in Italia, dalla paziente elaborazione delle pregresse fonti letterarie e narrative in particolare ("Il libro di Sindbad" o "Dei Sette Savi" fra tutti), si fa strada il "Novellino", primo tentativo romanzo di fornire una raccolta organica di racconti. Presenta la varietà come una delle caratteristiche meglio evidenti e questa si manifesta sia sotto il profilo contenutistico e quindi di svolgimento di argomenti che proprio all'interno della loro disparità trovano ed esprimono la loro forza narrativa, sia sotto quello formale riferito ad ambientazioni diversissime e introducendo personaggi appartenenti alle epoche storiche più disparate e distanti, alternando a piacere personaggi come monarchi, cavalieri cortesi, ovvero filosofi e letterati realmente vissuti, accanto a quelli generati dalla fantasia, ovvero dalla tradizione mitologica, giungendo altresì alla descrizione dell'intervento degli dei, figlio del più puro retaggio del paganesimo, tutte peculiarità che verranno successivamente riprese e ampliate dal mai sopito genio del Boccaccio. Benchè lo stile sia inscindibilmente legato alla forma della narratio brevis, non mancano momenti di autentica poesia (v. la delicata ed elegante novella del Cavaliere Narcis presso la fonte).

L'opera è stata collazionata a Firenze da un anonimo e tramandata da una vulgata edita a Milano nel 1836 che per la prima volta indica quel titolo, poi conservato in tutte le edizioni successive, ma in origine erano stati disposti due titoli "Le ciento novelle antike" e "Libro di novelle e del bel parlare" che sembrerebbe quello originale.

Il più antico manoscritto è il c.d. Codice Panciatichiano Palatino 32 della Bibblioteca di Firenze ed è composto di tre parti distinte designate rispettivamente come P1, P2 e P3. La prima parte (la P1 appunto) attesta il titolo originario ed è stata collazionata da un anonimo toscano, un Ur-Novellino che comprende il prologo, ripreso nella vulgata, e si presenta assai lacunoso oltre che differente in molti punti con essa; esistono ben 16 narrazioni di cui non si ha riscontro altrove e vengono riportati estratti sia dal "Fiore dei filosafi" che dal "Libro di Sidrac". La P2 è stata generata dalla caduta di un quaderno e si vorrebbe farla risalire al xiv sec. Come è nella più radicata tradizione manoscritta, questa parte è opera di un secondo copista quasi certamente fiorentino a differenza del compilatore di P1 di origine toscana-occidentale e inizia proprio dove P1 viene interrotta con l'evidente scopo di completarla. La P3 risulta aggiunta più tardi e probabilmente è opera del medesimo copista di P2; consta di 20 novelle che amplificano altre contenute nel Novellino, fornendone un taglio più corretto e maggiomente stringato. Di più non è possibile affermare perchè la parte risulta mutila.

Nel Novellino il compilatore diventa autore proprio nel momento della riproposizione del materiale tradizionale che verrà emendato delle eccessiva moralisatio presente in modo elevato negli exempla cui la nuova forma di narratio brevis prende spunto. Autore non è infatti soltanto colui il quale riesce a generare dalla sua mente una nuova narrativa, ma anche chi è in grado di elaborare insieme tutti quei segni della tradizione e porli come prodotto autonomo. La parola si stempera delle sue verità trascendenti e diventa parola guidata da onestà cortese a costituire un ponte ideale tra passato e futuro; l'exemplum si inserisce in un contesto di edificazione religiosa e la novella invece si esplica attraverso l'uso intelligente della parola detta con arte. Il fine ultimo dell'exemplum è la moralisatio, quello del Novellino la delectatio. Alla grande varietà della materia trattata si pone, per contrapposizione, l'unità novellistica; si affaccia in primo piano la cortesia, ossia la trasposizione borghese dell'ideale cavalleresco.

Persino l'amore viene posto in secondo piano se consideriamo che soltanto 5 novelle presentano un indiscutibile e spiccato carattere amoroso; l'amore si svuota della sua carica simbolica e allegorica per vestirsi di ironia e parodia e l'opera in toto si pone soprattutto in relazione, più che con i tante volte citati exempla, con i fabliaux, il cui vivace realismo e lo sconfinamento nel paradossale e grottesco, incontreremo sia nel Novellino, quanto più avanti negli irresistibili racconti di beffe del Boccaccio e nei suoi successori. 

°°°°°

Un dolç desig amoròs

ha pres possessiò de mon cor lleial,

senyora, que em ve de vos,

a qui estic del tot obligat,

que en pensament veig nit i dia

el vostre cos estimat i gentl

i el bell dolç esguard plaent

i vostra amable condiciò

(Formit de Perpinyà)

 

 

LA METASEMANTICA


Carissima,

la tua infinita fantamacrogia mi ha scosso nei precordi della sensibilità, avendo permesso che il tuo lisismo mi avesse profondamente mesicato, Non c'è al mondo, infatti, alcun archeligio che fionni le rastère di tutte le nisolde, così da biasimare le gise dell'intera situazione e, benché io stesso parèchi, decespedando come un partaccione, devo prendere comunque atto di tutta la caìtia che annebbiava la mia vista troppo aissorata.

Ma come stereotipata è la frase volgare, così emigidiosi restano i tuoi slanci, le tue boderine e quant'altro ti concerna.

E' giusto quindi che, a questo punto, io deghi le roppe sulle terediate ospe e slanci la destra in un afflato sincastico e alloreferente, derando le spalle anche sulle vozze!

Con immutato affetto

Emilio

°°°°°

 

TRADUZIONI E TRADIZIONE

Non è difficile ascoltare, durante le conversazioni amichevoli incentrate sulle letture personali, elogiare questa o quell'opera di un dato autore straniero dimenticando assai spesso, per non dire sempre, che il destinatario di tali elogi (a prescindere dalla trama che resta sempre dello scrittore) è invece il suo traduttore (tranne chi, ovviamente, avesse letto l'opera in lingua originale). Il modo di tradurre deve variare a seconda dei due principali stili letterari di cui la traduzione è oggetto: la poesia e la prosa.

Affrontando la versione di un componimento poetico sarebbe evidentemente errato procedere col metodo parola per parola (sia pur impegnandosi nella ricerca del termine più esatto possibile) senza tener conto di un elemento importante, forse il più importante, che è la metrica.

Se l'utilizzo di vocaboli non rende agevole il ritmo imposto dalla composizione lirica in lingua originale, è necessario cambiare per rispondere alla citata esigenza; sarebbe altrimenti opportuno adottare come prassi operativa lasciare lo scritto in lingua, ponendo la traduzione di ogni termine a piè pagina per consentire l'interpretazione dell'elaborato.

Nell'irrinunciabile intento di rispettare la metrica le frizioni si presentano con insistente frequenza poiché il traduttore, in ossequio a tale rispetto, favorisca i significanti traslati in armonia con essa, ma di efficacia semantica assai distante dall'intento dell'autore. Una siffatta operazione, se avrà privilegiato la lettura fornendole un ritmo certamente efficace, risulterà una inaccettabile semplificazione che avrà sacrificato su tale altare il peso dei significati così come originariamente intesi dal poeta.

Rischi inferiori si possono rilevare quando il corpo letterario è invece prosaico: esso offre il respiro ad una maggiore apertura verso forme assai meno rigide di quanto accade per la poesia, potendo beneficiare di espedienti letterari (rectius: narrativi) meglio rispondenti all'esigenza del passo traslato. L'uso della perifrastica piuttosto che della sinonimica, soddisfa in maniera esaustiva l'aderenza al peso semantico d'insieme, sostituendo un vocabolo di madrelingua soddisfatto da se stesso e da se stesso compensato, con un efficace susseguirsi di lemmi che rendano giustizia a quanto concettualmente s'intenda rappresentare.

L'argomento in discussione non può non far balzare all'occhio attento l'opportuna riproposizione dell'annosa diatriba sulla ricostruzione dei testi antichi di fronte all'originale perduto perché in fondo, il risultato di un testo tradotto, è la inevitabile generazione di un prodotto che è "altro" rispetto a quello a sua volta generato dall'autore. Sui testi antichi si pone il problema sulla redazione (spesso massiccia) di copie dell'originale perduto o del suo archetipo discutendo sull'arbitrarietà dei copisti, nonché sul loro livello d'istruzione e sulla loro preparazione nella materia del volume che si accingevano a riprodurre; non dissimilmente figura di attualità la discussione sull'identità del traduttore e la sua capacità (necessità) di attenersi ad un richiesto ed apprezzato rigore filologico per non snaturare l'originalità dell'opera proposta.

Con quanto fin qui proposto commetteremmo un ggrave errore mettere in discussione capolavori di Shakespeare o di Tolstoi, tanto per citare i primi grandi nomi venuti alla mente se non riportati in lingua originale, anche perché il lavoro del traduttore non si esplica soltanto nel sedersi a tavolino con l'opera in originale e procedere, con o senza il vocabolario, alla traduzione parola per parola, bensì nel fornire un respiro letterario ed emotivamente elevato al componimento a cui ci si sta dedicando.

 

Affermare però, a séguito della lettura della versione italiana di un testo di un dato scrittore straniero di aver apprezzato il suo traduttore piuttosto che affermare l'apprezzamento dell'opera, non rappresenta in toto una pedanteria del filologo, bensì una espressione ipercorretta per illustrare e rispecchiare un importante aspettto formale di un procedimento letterario.

 

FAVOLIAMO

Per renderci conto di quanto quel componimento letterario definito "favola" o "fiaba" abbia origini antiche, basterà prendere visione di alcune incisioni babilonesi riportanti scene da cui si può facilmente desumere una qualche relazione con il racconto favolistico.

Ma la favola nota più antica la troviamo in Egitto nel XIII Sec. a. C. col titolo convenzionale "Storia di due fratelli", la cui trama è concettualmente analoga a quella contenuta nel "Libro dei sette savi" o "di Sindibad" che, a sua volta, riprende l'espisodio biblico relativo al disonesto comportamento della moglie di Potifar.

Anche qui si narra della seconda moglie del re che, respinta dal di lui figlio che aveva tentato perché innamorata, lo accusa presso il marito di tentata seduzione. Sarà proprio l'opera di Sindibad, consigliere del re, ad impostare la situazione per far venire a galla la verità che accuserà la donna, salvando così il principe precedentemente condannato, poichè il monarca aveva prestato fede alle parole di sua moglie.

Questo testo appare fondamentale per testimoniare l'origine della favola e la sua trasmissione si aggancia ad un altro fondamentale manoscritto: la raccolta indiana di novelle che va sotto il nome di "Pantchatantra", conosciuta in Occidente dopo un suggestivo viaggio nei secoli attraverso una versione perduta redatta in lingua "pahlavi" (mediopersiano) nel sesto secolo da cui ne è derivata una in lingua araba intitolata "Kalila e Dimna", nome di due sciacalli presenti nel primo libro. Quello arabo è il testo più antico a disposizione che ha, a sua volta, generato ulteriori versioni in lingua siriaca, ebraica e spagnola. Da quella siriaca è sorta la traduzione in idioma greco: "Istoricòn Suntìpa tou philosophou oraiòtaton tanu" ("Bellissima staoria del filosofo Sindibad"), abbreviato poi in "Suntìpa", di cui esistono tre redazioni curate da Michele Andropulo di cui una contaminata dalla lingua latina. A queste si sono poi succedute altre versioni occidentali più recenti dove si assiste ad una occidentalizzazione di forme e contenuti: lo scenario è stato trasportato nell'antica Roma, fornendo nomi latini e abbozzando un contesto d'ispirazione cristiana specie nell'intento moraleggiante relativo al contenuto della sentenza finale.

Una tale manipolazione si è avuta anche nelle versioni orientali, dove i saggi da sette diventano dieci e sono denominati "visir".

SPECIFICHE SUL PANTCHATANTRA:

Come struttura è composto da settanta favole in prosa alternata a versi, innestate in una sorta di racconto-cornice di tipo didascalico incentrato sulla figura del brahmano Visnusarman, chiamato dal re come precettore dei suoi tre figli, e che sarebbe poi lui stesso l'autore dell'opera composta di cinque ("Pantcha") libri tematici:

1) "Separazione degli amici": gli sciacalli Kalila e Dimna si adoperano per rompere l'amicizia fra il leone ed il toro;

2) "Il modo di acquistare gli amici";

3) "La guerra e la pace dei corvi e dei gufi";

4) "La perdita di ciò che si è acquistato";

5) "Le opere fatte sconsideratamente".

Il connotato moralista presente in questa e nelle altre opere citate, troverà spazio e ispirazione nella prosa del più noto favolista della tradizione antica: Esopo con le sue quattrocento favole che verranno tradotte in lingua latina e talora reinventate da Fedro.

NEL MEDIOEVO

Per tale genere letterario il Medioevo ha mostrato un notevole interesse in particolare per l'opera esopea successivamente rivisitata da Fedro, ignorato al tempo. Sono state generate nuove favole provviste di morale, definite appunto "favole esopiche" il cui autore si credeva fosse un certo Romulus per farle conoscere al figlio Tiberino. Ma quel nome è stato tramandato come denominazione della silloge presentata in tre versioni successive:

1) Romulus ordinarius (vulgaris) appartenente probabilmente al IX sec. ;

2) Romulus di Vienna;

3)Romulus di Nilant (dal filologo Friederick Nilant, 1709), comprendente quarantacinque favole.

Dell'opera vennero generati componimenti in prosa e in versi in tutta Europa. Il Medioevo, come spesso avvenuto, ha rappresentato uno spartiacque fra il mondo antico e il mondo moderno; da qui trarranno linfa preziosa i più noti favolisti che si sono succeduti: Perrault, i fratelli Grimm, Hans Christian Andersen e anche il nostro Collodi.

 

 

 

FOTOFASOFONIE

(E. Aurilia)

 

ALTO PROFILO

Voglio un pensiero alto

più di una spiga di malto

che mi faccia spiccare un salto

per evitare l'assalto

di chi vuol togliermi il risalto

 

(.....)

Datemi le parole

le stenderò come panni da bucato

e le dirò colore su colore

illuminato

Berlenda tu che mi nascondi

palpito immoto

di lucerne asciutte

fintanto giovane da familiari

fermi noi tutti

 

IL TEMPO

Come vellutata l'immagine del mondo

 

EUD a END

Quante forme conosciamo adesso

il dritto il curvo che ritenta

dove concavo e convesso che desidero

come piante allineate lungo l'argine

assiepato legaccio che riporto a te

sole barbagli luce luminosa intorno

viva cocente intensa e molto più

raggio sembiante luminoso et casto

pretioso lume che s'apprende

di giorno, il calore del mattino ancòra

liberi suoni a lungo ad ogni

strada, tromba marina stridi

con ribeche, dono senhal costruita cosa

(al mondo)

 

Da "I PENNINI DEL PROZIO ARMIDO"

 

Non è adeguato che soffi nel vento

ottanta e più anni

di futuri inverni

e passate stagioni

di caduco fogliame

passaggi obbligati

e nebbiose memorie

tu stingi e ritocchi

le polveri sparse

accanto al cassetto

che resiste alla chiave contorta

fra echi di musica antica

e pergamene sdrucite.

Alta guardia

sui merli delle basse torri

e speriamo nel tempo

guida avveduta

sineddochiamo gli spazi

su significanti sdruccioli

cos'io già miro

chi tende sospiro

gioioso cammino

di simulate vette

d'intarsi cospicui

su cadenzate meste

con voglie diffuse

di scelte soffuse

sacrificate ai venti

dalle spore sorgenti

guida rimossa

e scompaginati pensieri

impegni presi

malavoglie diffuse

di beni coattivi

girando nei secoli

assisi in poltrona

scriviamo improbabili vite

come adesso in sofferti

attimi di caduchi

giochi di infantili cuori

dai contorni migliori

seminata gioia incantata

nel dubbio sopita

anima orante, utile, attenta...

 

LONGNANSSA

Parole al vento vuote

fatiscenti nell'attimo

della proposizione...and I

 

Occhi indifferenti

carenze mnemoniche

vuoto palese...and I

 

Manifesta assenza

scolorito pensiero

reiterate rimozioni...and I

 

Respiro sospeso

inutile affanno

vuoto palese...and I

 

Luce smunta

di pallidi soli

nebbia cosciente...and I

 

DISATTENTI COLORI

Quanto costa un'anima rubata

stinta al sole dell'illusione

già andata prima d'esser stata?

Nei muti spazi colorati o grigi

tutto d'immenso rifulge il nulla

vuoto dei nostri pensieri

arrampicàti nel baratto basso del contrasto.

 

Silenzio velato d'azzurro

nulla è vietato all'oblìo

di ferme dolcezze

ricondotte a poco.

 

Non farlo...vuoi rubarmi l'anima!

Patisci. Il sonno ristorerà.

 

FOTOFASOFONIE

Sciogli fra le mie dita il sentimento

che paia voglia dire di una cosa

ma si riveli ancor meno vogliosa

d'intemperanza di stonati aedi.

E quando di Narciso ti presento

lo specchio d'acqua che complichi la vita,

spegni il valore d'ogni fiamma ardente

del futil gesto la metonimia.

Ed ecco ormai il deluso sfruttamento

di scaglie fragili di termini in disuso,

vivo the bright side of the road

timido squarcio fra potenti nembi.

Come non detto e tanto più non fatto

perdo il mio tempo ad inserir la sirma...

 

FLEBILE LUNA

Come confondo il tuo parlar fra i denti

nel suono amico di mille cennamelle

quale peccato il Paradiso perso

di tante notti lo smaalto conquistato.

 

Come coniglio rodo il firmamento

stelle a cascata invadono la strada

il foglio bianco invoca la misura

di cento passi il borgo disadorno.

 

Picchia la dispettosa pioggia sull'asfalto

inutil eco di presagi antichi

sospesi nidi di rondini leggiadre

che presto o tardi la mente riunirà.

 

Festa di gente variopinta intorno

presso la luce che illumina la vita

ed io confuso il limite contemplo

della ribalta che mai mi nuocerà.

 

 

CRISOPA

Briciola fragile su fragile vetrata

disegno lieve di elfo quotidiano

assorto sosti su sterminati siti

invisibil levi su contrasti stinti

spicchio di luce

 

SELVA SELVAGGIA

Selva selvaggia

aliena di notizie

forte d'incastri

di sterpaglie nude

mira le foglie

imita l guazza

per curve strade

il puro  incantamento-

 

Poggia il manto d'autunno

cortese guida

ad anime disperse

congiungi lieve

i pampini rubati

al passo lieve

di merli compassati

 

STILLE

Dolce rugiada stilla

sul contrapposto dei pensieri mossi

nella disamina delle menti assenti

nella noia della pioggia buia.

 

Conta i momenti di contemplazione angusta

statica dinamica incurante di diffuse tristezze

cambia il passo e adàttati alle brume.

 

Viaggerai assorto nei silenzi

sovraccarico di ansie scolorite

nel muto àmbito delle foglie morte.

 

Ritratta le speranze ormai disperse

svolta ancora il flagello quotidiano

ripàssati i pensieri incastonati

 

Di nuovo sole le nubi son nutrite.

 

PACE STRANITA

All'alba ai piedi della chiesa

unta la coltre rivolta all'universo

puro egli sogna il volo degli uccelli

presagio chiaro di liberi languori.

 

Eterno movimento cadenzato

perché ti duoli e non invochi il limite?

Cercami ovunque e libera la mente

posso trovarti in cima a un sogno stinto.

 

EROSIONI

Non dirmi di quello che dispero

che a mezzogiorno ormai

veda il tramonto

di veti grigi m'ammanto

e del dolore

che sfoglio i giorni

che non rivedo piatti.

 

Sorgi più vivo e più vicino ai sogni

fa che continui l'onda

che purifica avvolge e non squassi

le veglie malvissute;

su braci ardenti fai sortire l'acqua

che possa l'opra mia

compiersi a fondo

che versi, viaggi, avanzi

e viva viva di propria luce

interna

di brame di sogni e di pensieri

e non urti mai nel buio

e contro amore giochi!

 

PAVANA

Tu m'insegui in un sogno malgoduto

e nella nebbia avvolgi il mio presente

Ogni volta che semino la traccia

l'erba caduca sfoglia le mie fronde

Di lucente luce i lembi all'orizzonte

il tempo fugge e vi sarà il baratto

Di quanto chiasso il mio mondo è costellato

l'eterna ombra dei pampini ingialliti

Mòstrati all'inquieto quanto basta

la fredda pioggia non copre fantasie

Rimani fermo dentro i tuoi ricordi

nessun dei sassi pesa più del vento.

 

PAVANA 2

Non so cosa sia

ma vale la pena

un colpo di scena

d'una notte stellata.

Valanghe di sabbia

mutate colore

violette nascoste

di sano pudore

tranquilli gioiosi

pur anche silenti

nel gioco del gioco

di nebbie e d'affanni

stipate nel fondo

del nostro pensiero

calato profondo

ma tanto sincero

che tema la tema

della tautologia

poss'io perdurare

l'oblio del dì fosco!

°°°°°

QUANDO EU STAVA IN LE TU' CATHENE*

Quando eu stava in le tu' cathene,

oi Amor, me fisti demandare

s'eu volesse sufirir le pene

ou le tu' rechiçe abandunare,

k'enno grand'e de sperança plene,

cun ver dire, sempre voln'andare.

Non [r]espus'a vui di[ritamen]te

k'eu fithança non avea niente

de vinire ad unu cun la çente

cui far fistinança non plasea.

 

Null'om nun cunsillo de penare

contra quel ke plas'al so signore,

ma sempre dire et atalentare,

come fece Tulio con colore.

Fùçere firir et increvare

quel ki l'è disgrathu, surt'enore:

qui ço fa non pò splaser altrui,

su' bontathe sempre cresse plui,

çogo, risu sepre passce lui,

tute l'ure serv[e] curtisia.

 

Eu so quel ke multo sostenea

fin ke deu non plaque cunsilare;

dì né notte, crethu, non durmia,

c'ongni tempu era 'n començare.

sì m'av[e]a p[o]sto in guattare.

Co' 'n me braçe aver la crethea,

alor era puru l'[abra]çare;

mo son eu condutto in parathisu,

fra [su'] braçe retignuthu presu,

de regnare sempre su confisu

cun quella k'eu per la [av]er muria.

 

Faceme madonna gran paura

quando del tornar me cons[e]llava

[dicen]te: "De ro[m]or no ve cura".

[Se ratta] la gente aplan[ea]va

[..aviande que]the [s]ententi[e]'lura,

ka s'ella cun gran voce c[ri]thava,

quando 'l povol multu se riavesse,

contra 'l parlathor se regronchiss[e],

de[l] mal dir [fed'a] ella custothisse,

sì fa[r]ò eu per la plana via.

 

D[e qui tuti] k[ài], [Amo]re, tego,

teve prego, non me smentegare,

[ka sol vitha vale c']abi sego

o ria morte [tore] e supor[t]are.

[...............] de av[e]r mego,

né cun lei fi' s[a]ço co[n]tr'andare

[s'a]l [messer] l[odase] non so cui.

Fals'è l'amor ke n'eguala dui

[et] eu [so] ko [sì servent']a vui,

come fe' Parise tuttavia.

 (Anonimo)

 

* <!-- @page { size: 21cm 29.7cm; margin: 2cm } P { margin-bottom: 0.21cm } -->è stata trascritta sul retro di una pergamena che recava l'atto di acquisto di un immobile e data circa 1127 (1151ter Ravenna - Archivio Storico Arcivescovile) e sarebbe dunque anteriore alla c.d. Scuola siciliana di almeno un decennio. Il ritrovamento primario appartiene a Giovanni Muzzioli nel 1938 senza la pubblicazione che si deve al filologo Alfredo Stussi nel 1999 (Versi d'amore in volgare tra la fine del sec. XII e l'inizio del XIII. In Cultura neolatina, 69 - 1999 pp. 1-69). 


<!-- @page { size: 21cm 29.7cm; margin: 2cm } P { margin-bottom: 0.21cm } -->